RACCONTI, LEGGENDE E ANEDDOTI
ROBILANTE
Su Grifo Bianco dello scorso anno riservammo un piccolo spazio per ricordare “Stortino” da tutti benvoluto e la cui storia ebbe risonanza perfino nella rubrica de “La Nazione” che se ne interessò per il caso di”umanità” verso quel piccolo ma simpatico cane randagio.
Ora diamo ospitalità ad un altro “personaggio” non meno celebre, questa volta un pennuto, vissuto nel nostro paese molti anni fa, quando ancora non c'era l'automobile, la luce elettrica, il telefono e, naturalmente la televisione.
Il racconto è vero e le persone in esso citate sono realmente esistite.
Lo strano nome è noto a molti sigillani, i più anziani lo ricordano ancora, ma pochi ne conoscono la storia.
Eppure Robilante, trasferito dal montano luogo nativo a vivere fra gli umani, è stato oggetto di grande attrattiva e ha fatto parlare di sé per la singolare vicenda di cui è stato protagonista.
La sua provenienza, le scoscese balze delle Cese, in un anfratto della roccia da cui poteva liberamente spaziare la valle verde di piante e solcata da uno scrosciante ruscello, in attesa di tentare la grande avventura.
Ma il suo abituro che, data la strategica posizione sembrava inespugnabile, non era sfuggito a certi cacciatori i quali, aggirandosi nella zona, avevano notato, nel grigio della roccia, un non so che di nero agitarsi e un gracchiare che non lasciava dubbi. Di una nidiata di corvi infatti si trattava.
Superato il primo stupore, i nostri animosi si concertarono sul come catturare i pennuti: per l'impresa che presentava notevoli difficoltà, incaricarono il più leggero della comitiva, un gobbetto, a dar la scalata. Con una fune lo fissarono per la vita e lo calarono lungo la parete: quando, carico del bottino, fosse giunto in fondo, il gobbetto avrebbe dovuto gridare, che loro avrebbero allentato la corda. Questo era il segnale convenuto.
Disgraziatamente le cose non andarono proprio così perché, o fosse stata l'emozione della cattura o il dolore provocato da qualche artiglio dei corvi che aveva rinserrato nel petto a farlo urlare, fatto sta che i compari, di colpo, lasciarono la presa, abbandonando al suo destino l'incauto scalatore. Il quale, dopo un volo di qualche buon metro, cominciò a ruzzolare lungo gli “ scialimeti” sottostanti, rimbalzando fra le pietre e il breccione, uscendone fuori tutto pesto e dolorante.
Dei tre corvi, uno aveva ripreso la liberta durante la caduta, un altro era rimasto schiacciato e solo uno era sopravvissuto a quel trambusto: Robilante! Così lo battezzò Peppe di Felicione che ne entrò immediatamente in possesso concentrandovi tutte le sue cure e attenzioni. In breve il “menatore” divenne adulto, crebbe a dismisura addomesticandosi al suo padrone come un cagnolino.
Peppe di Felicione ne andava fiero: fra i due si era stabilita un'intesa perfetta; guai a chi avesse osato torcere una penna a Robilante.
Tutte le mattine il corvo, un po' camminandogli accanto, un po' svolazzandogli attorno, accompagnava il suo padrone alla cartiera della Scirca dove questi andava a lavorare per tornare poi a prenderlo allo scadere del suo turno. Una coppia veramente singolare; c’era da impazzire di gioia!
Però Robilante era noto non solo per queste sue eccezionali qualità, ma anche per alcune marachelle che combinava durante la forzata assenza del suo padrone. Era infatti solito bighellonare in piazza fra la divertita curiosità dei ragazzi ai quali spesso sottraeva il berretto prendendolo d'infilata e portandolo chissà dove e stazionare sui tetti prospicienti il palazzo comunale; da lassù, con fare sornione, osservava tutto il movimento della piazza, e, a tempo opportuno, prendeva di mira la bottega del macellaio che esponeva la “merce”, asportando ghiotti bocconi o piombava sulla botteguccia di merceria gestita dalla Rosetta la quale ogni tanto constatava la sparizione di qualche oggetto più o meno luccicante della sua chincaglieria.
Un altro hobby del volatile era l’ufficio del segretario comunale ove dava sfogo alla sua mania dispettosa, mettendo a soqquadro le carte che gli piaceva di scarabocchiare servendosi del becco o di lacerare con le zampe. Tutto questo accadeva quando Bendandi, nell'uscire dal Comune, dimenticava di chiudere la finestra dell'ufficio.
Una volta per poco non successe un finimondo nell'archivio dove Robilante, introdottosi furtivamente, era riuscito a sparare una scatola di fiammiferi trovata sopra un tavolo.
Naturalmente un odio sordo covava il Bendandi contro quella orribile bestia che glie ne combinava di tutti i colori e studiava il modo e l'occasione di vendicarsi, ma che non lo avesse trapelato nessuno, perché la minaccia di Peppe di Felicione era esplicita e tremenda: chi tocca Robilante, “muore”!
Sicché un bel giorno, anzi un triste giorno, invece di tornare a casa per il pranzo, il Bendandi si appostò sotto il tavolo dell'ufficio in attesa che il famigerato uccello iniziasse la sua scorreria sbarazzina.
Questo non si fece troppo attendere e, mentre stava facendo scempio della Gazzetta Ufficiale, il vecchio segretario, uscito di sotto al suo nascondiglio, gli vibrò un violento colpo fra capo e collo con una bacchetta di ferro che fece stramazzare il povero Robilante senza avergli dato neppure il tempo di emettere un lamento.
Giustizia era fatta; ma buona fortuna fu per il Benalancli il fatto che Peppe di Felicione mai venne a scoprire la fine ingloriosa del suo straordinario, eccezionale amico, Robilante.
Quando molti dei nostri paesani torneranno per le vacanze, saranno sorpresi di non vedere più un personaggio divenuto ormai popolare e facente quasi parte della vita del paese: Stortino! cosi detto per quel suo procedere e trotterellare caratteristico. Ormai tutti Io conoscevano ed erano abituati a trovarselo tra i piedi; non pochi provvedevano al suo sostentamento sin da quando era piovuto a Sigillo non si sa come e da dove.
Ora giace sotto un’odorosa pianta di tiglio ove mani pietose lo hanno collocato, lungo la Flaminia, ai margini del paese ove, per oltre dieci anni è vissuto, quale mascotte, ricevendone ospitalità e tanta carica di umanità.
Il piccolo fu estratto immediatamente, ma riportò ustioni così gravi che lo condussero alla morte, tra lo strazio dei suoi cari.
La piccola salma fu composta in una bara bianca.
Venne il parroco con i chierichetti e un gran numero di bambini per l'accompagno funebre.
La mamma, desolata, pose dei fiori intorno alla testina del piccolo, li accomodò a forma di corona e, mentre gli uomini si adoperavano a mettere il coperchio alla bara, essa tra lacrime e baci pronunciò questo lamento:
”fortunati voi, fioretti, che gli potete stare vicino. Io non posso seguire il figlio mio. Voi, sì. Fategli compagnia, accarezzatelo, baciatelo per conto della mamma sua. Prendete il mio posto, fioretti cari, e consolate l'amore del mio cuore!”.
Solo una mamma poteva dire parole cosi toccanti e sentimenti cosi affettuosi.
Io credo che espressioni simili avrebbero fatto invidia a Omero, a Virgilio, e ai più grandi lirici di tutti i tempi!
(Da uno scritto di
Domenico
Bartoletti pubblichiamo questa storia commovente).
”Il giorno 9 di settembre 1943 fu
ucciso dai Tedeschi il soldato Bartoletti Boemio della classe 1923, del
15°
Regg.to Autieri SAVONA, chiamato alle armi il 12 gennaio 1943, il 13
già al
Corpo destinato come sopra.
Il 14 dicembre 1947 io Domenico,
padre del Soldato, partii per Savona, dove arrivai alla mattina del 15.
Fui
preso dal mal tempo, perché fece una quarantina di cm. di neve.
Mi recai da un amico il quale per
quella giornata mi ricoverò e, sebbene bagnato dalla neve, per qualche
giorno
cercai di rintracciare dove era sepolto il figlio.
Scavata la fossa, misi i suoi
resti in una piccola cassetta, il cui peso ascendeva ai 30 kg. e forse
di più,
perché il suo corpo non era ancora disfatto completamente. Per
risparmio di
quattrini mi feci coraggio di riportarlo
a casa. Attraversando la neve
ghiacciata per parecchi chilometri lo trasportai con le mie proprie
mani fino alla
stazione di detta Città. Presi il treno che partiva alle ore 22, da
Savona fino
a Pisa; fui avvisato che un vagone del treno mi portava a Pisa senza
cambiare
mai; appena montato sul treno, affollato di gente, riuscii a depositare
la
piccola' cassetta formata come un pacco da viaggio e la depositai nel
corridoio
del vagone, ove ero salito.
Cercavo di nascondere il pacco e
i viaggiatori mi dicevano che ero un contrabbandiere di olio; invece io
accoccolato
non sapevo più che cosa facevo e che incontro potevo subire. Sapevo che
con un
morto non potevo viaggiare e rispondevo alla folla che se avessi
scoperto e
fatto vedere cosa conteneva il pacco, il vagone sarebbe stato sfollato.
Mentre il treno correva, dovetti
mettere il detto pacco sotto le valigie dei viaggiatori per non farlo
calpestare da nessuno.
Arrivato a Pisa cambiai subito
per Firenze, e lì arrivato, dovetti percorrere i binari della stazione
da una
estremità all'altra, senza riposarmi mai per non farmi sospettare da
alcuno.
Risalendo su un altro treno, che
proseguiva per Arezzo e Terontola, mi raccomandai ai passeggeri per
nascondere
il pacco, del quale volevano sapere cosa conteneva di contrabbando e io
sempre
duro tenevo segreto, ma poi in un punto di detto percorso le persone
che erano
insieme con me nello scompartimento scesero, ma non erano soddisfatti
perché
dicevano: almeno dicci perché stai abbuiato e melanconico; io non
rispondevo
nulla, ma poi, forzatomi mi decisi dire cosa c'era dentro, perché
ripetevano: dicci,
se no non scendiamo contenti, perché leggevano nel mio volto che c'era
qualche
cosa di grave sopra di me.
Dateci le buone feste per il
Natale e mentre prendevano le valigie per scendere, dissi loro
facendomi un
animo risoluto: “ebbene, lo volete sapere per forza? ….. il pacco
contiene i
resti di mio figlio che sono riuscito a riprendermelo e riuscirò a
portarlo a
casa dalla Madre che attende con il cuore straziato!”.
Scoppiarono tutti in un dirotto
pianto e facendomi coraggio scesero; non appena scesi, salutavano i
familiari
che li attendevano e vedendoli con le lacrime agli occhi domandavano
cosa
avessero, e questi risposero: non abbiamo nulla solo che! ….. Che cosa
vi è accaduto?
Cosa grave no, ma abbiamo lasciato nel vagone, il Babbo che riporta a
casa il
Figlio soldato, morto, per riconsegnarlo alla Mamma sua!
Il treno proseguì e non sentii
più nulla; arrivato a Terontola sostai per qualche istante ad attendere
un
nuovo treno.
Risalii e partii, ma in treno non
parlai più a nessuno, fino a Foligno.
Scesi e dovetti camminare con il
medesimo pacco sulle mani, ossia, da una, mio figlio e dall'altra la
valigia
che conteneva i fiori, che comperai a Savona.
Sul treno che veniva da Roma e
proseguiva per Ancona, uno dei controllori mi disse: “Dove vai?....”
“Vado a
Fossato di Vico” “ Ebbene fai presto, se no resterai a piedi; sali su
questa
vettura, ma non è la terza classe, non importa purché sali e fai
presto”. Era
un bel posto.
Dalla sera del 19 in cui partii
ed a Foligno ero alle ore 19 del giorno seguente senza avere assaggiato
un pezzo
di pane, figuratevi che forza avevo; stanco ero; feci uno sforzo; non
so chi mi
dette tanta forza; riuscii a gettare il pacco sulla vettura; salii, ed
il treno
partì.
Entrai in uno scompartimento; vi
erano tre persone, che ritornavano a riposare alle loro case e domandai
il
posto per me. Risposero: “Vieni pure!”.
Domandai: “ Dove posso nascondere
questo pacco?” ….. “Cosa ci hai?”.
”Non posso svelare, lasciatemi
perdere”.”Ebbene non nascondere nulla, mettilo sopra lì”. “Ma io non
sono in
forze di arrivarci”. “Ce lo mettiamo noi”. “Accidenti ma che cosa
contiene?
.... è cosi pesante!.....”.
” Vi pesa davvero e, se sapeste
di dove vengo!......”. Ma lì finì così.
Appena sedutomi facevo finta di dormire;
passò il controllore: “Biglietti signori!.......” io misi la mano in
tasca e
tirai fuori il biglietto senza scoprirmi la faccia e questi mi disse:
“Mi fai
vedere?! .... riposa, se sei stanco!” e se ne andò. Ma io allora stavo
per
rispondergli, ma mi sembrò come uno mi avesse messo la mano alla bocca:
“ Taci
non parlare!......” e passò così.
Poco dopo uno scese e uno dei due
restanti mi disse; “ Potrebbe sedere dall'altra parte?” ed io: “Si!” e
questi si
allungò per dormire, ma poco dopo si aprì lo sportello dello
scompartimento ed
entrò il controllore di prima ed un altro Capo con due occhiali e una
lanterna
e dice: “ Ma, o signore, cosa contiene questo sacco? …….” e io zitto,
facendo
finta di dormire; ma il Capo proseguiva: “ o signore,
sveglia!.....forse che il
diretto è un treno merci?”. Ma l'altro sorrideva e questi: “Ma cosa
ridi?!!” “ E, mi fai ridere perché se tu
fosti nei
panni di questo avresti caricato, non il sacco, ma qualche cosa di più
……”. “ Perche', perché? “. “Non sai chi
sono questi?.....,
sono i tuoi e i miei colleghi!......”.
Questo Capo rimase e rispose: “allora
dormi pure!” e si allontanò. Il cuore mi batteva forte forte.
Tra me dicevo: “questa volta me
la sono scampata passando per ferroviere anch'io!......”.
Arrivato alla stazione di Fossato
di Vico dovevo scendere; pregai l'uomo che era ancora con me e che
proseguiva
fino a Fabriano, e questi subito prese il pacco, lo accompagno fino che
scesi a
terra ed allora
gli dissi: “pesa... pesa sì, ma
sai cosa c'è? C'è mio Figlio, i resti del suo corpo che ho preso a
Savona, ove
fu ucciso dai tedeschi il giorno 9 settembre, dopo l'armistizio e lo
riporto a casa
dalla Mamma sua e le Sorelle che lo attendono!”. Anche questo mi
abbracciò e mi
saluto dicendo: “ Coraggio, te la sei scampata per questa volta,
coraggio,
buone feste a te e ai tuoi; sii sempre forte così!”.
Il treno partì. Ed allora ripresi
il pacco con la valigia ed invece di uscire dalla porta principale
passai
all`uscita laterale che conduceva fuori della Stazione; e intanto
pensavo: “Come
farò arrivare a casa? mezzi non ci sono”. Dopo un poco mi sentii
chiamare: “
Menco dove vai?” “Oh, siete voi che
andate a casa a piedi?” “Sì con questo peso!” “Cosa ci hai?” “Ho una
roba cosi
gelosa che se si rompe, addio ai miei guadagni!” “ E che spesa bai
fatto?” “Una
spesa forte, ma!.....”.
”Cosa hai?....” “ Niente!......
Bisogna andare a piedi……” ripetei. E questi: “Non aver paura! ti
aiutiamo noi”.
Ebbi tra me coraggio, non ero solo: “ Andiamo, aiutatemi a mettere
questo pacco
sulla testa”. “ Lo prendiamo noi…..” “No, no, io devo riportarlo,
perché se si
rompe qualche cosa…. pazienza, avanti, camminiamo!”.
Ma la strada era gelata e vi era
pure la neve ed allora dissi: “ Aspettate che me lo metto in spalla,
perché se
scivolo posso fare qualche danno”, ed allora presi un cordino che avevo
in
tasca e legai la valigia e il pacco e
me lo feci mettere in spalla; ma
la strada era lunga e non si arrivava mai e le forze diminuivano.
Arrivati sul ponte del Purello
dissi: “Ci riposiamo un po'?” “Sì, ma perché non lo dai a noi?”. “
No!....non
posso, questo è il mio obbligo!”, e si riprese il cammino.
Strada facendo si discorreva di
tante cose e non vedevo che la strada ce ne era più poca, dissi a
questi appena
arrivati: “Venite su con me e ci facciamo un bicchiere” e questi: “Si “
e via
sempre.
Arrivati avanti a casa mia dissi:
“Allora ragazzi venite? Adesso ci va davvero un goccio di vino”, ma
questi
ringraziarono dicendo: “Adesso no, ci vediamo domani!.....” “ Buona
notte!....”,
e proseguirono per le loro abitazioni ed io arrivato alla porta di casa
vidi
che il lume era ancora acceso e chiamai: “ Anna, Diamante, Caterina!
venitemi
ad aprire…..sono io! “.
Le due figlie erano a letto e
chiamavano: “Mamma, è il Babbo!...... va ad aprire!.....” e questa giù
per le
scale e la porta si aprì. “E' il Babbo!...... finalmente sei
arrivato!....”. “Si,
non mi vedi?..... aiutatemi a depositare la valigia con il pacco che
non gliela
faccio più!” “Ma accidenti che cosa bai comprato?....” “Tanta roba
vedrai!....”.
“Ma il Figlio dov' è e quando arriva? cosa bai fatto?”. “ Ho fatto
tutto, tutto
bene e vedrai che arriverà in breve”.
"Ah! sei stato sempre matto e sempre
sarai; tu, invece del Figlio, sei andato a spendere i soldi e comprare
stupidaggini”; “ Lasciami perdere, ho fame, andiamo in casa”; “ma il
pacco lo
lasci qui? “, “Si, lascialo fare, dopo torneremo a riprenderlo, adesso
Ho fame
e bisogno di rinforzo; sono 24 ore che non mangio più” “ Ob, Dio, ma
adesso la
cena non c'è per te e come si fa?” “Si fa alla meglio”. Si sale in casa
e
mentre le figlie si alzarono e mi facevano tante domande, io allora
aprii la
valigia e dissi che vi era la cena o qualche cosa di quando ero partito
e non l’ho
mangiata; ma nel mentre che la valigia si apre, cosa apparvero? i
Fiori….. i
garofani che avevo comperato. Allora: “Ma Bbbo, Boemio dove è e quando
arriva? “.
“Presto Mamma... arriva davvero, ci sono i fiori e quindi vedrai che ha
riportato
i fiori soli?..... ma, Babbo, nel pacco che è disotto, cosa c'è?”.
Vedrete che regalo c'è per voi,
qui ci sono le scarpe, ma ora basta e dico a una delle figlie:
«Annamaria va a
cavarmi da bere!”. “ Sì Babbo”; ma la Madre: “ Ci vado io!”. Risposi: “
Ci vado
da me: Annamaria vieni con me”. Mentre scendevo, pensavo: e se ci
mandavo la
Mamma, ne avrei fatta una grossa; forse avrebbe scartato il pacco e
vedendo
scritto il nome del Figlio, le avrebbe preso qualche accidente, e così
ne
facevo due di morti.
Cavai il vino e feci: « Annamaria,
tu porta il boccale e io porto il pacco”. “ Ma Babbo, cosa c'è?.....”.
”Non ci pensare, appena sei
salita, chiudi la porta della cucina che il pacco lo porto nella
camera, che,
appena mangiato, lo aprirò”, e si fece così.
Ma che cosa succede?.....Entrato
nella camera depositai il pacco sul letto dove mio Figlio ci dormiva
prima di
partire e feci a sottovoce: “ Finalmente ti ho riportato e riposi di
nuovo nel
tuo letto!”. Non feci in tempo di uscire che un urlo acuto si sentì
dalla cucina:
«Che pacco di Egitto!..... lo tieni segreto... qui c'è il Figlio
Mio!.....Figlio
Mio!..... urlava la Madre. “Rompi il pacco, lo voglio vedere!....” e si
scaraventò
sopra il letto come se avesse perduto tutti i sentimenti e urlava:
“Figlio Figlio!.....voglio
vederti... apri il pacco, sennò non sono contenta!.....” ed io invece:
“ Zitta,
zitta... non urlare, non mi fa succedere qualche cosa; se sapessero che
ho il Figlio
morto in casa, mi arresterebbero; calmati, dammi pace, fammi mangiare.
Vedrai
domani; stai contenta; Ho risparmiato tanti soldi e la posta. L'ho
portato con
me; non temere; è tutto qui…. Lui!..... sta contenta e lasciami
riposare e mangiare,
sennò finirò anch’io…… “. Si calmò e non parlò più come non avesse più
la
bocca. Appena mangiato, ci si avvicinò al piccolo pacco e lo scartai e
dissi: “
Vedi come è sigillato?..... come faccio ad aprirlo? Se te lo apro
occorre di
nuovo fare altre spese, lascia stare così e vedrai che non piangerai
più, anzi
ora tutti insieme facciamo preghiera per il nostro caro, che sono
riuscito a
riportarlo e lo abbiamo vicino. Preghiamo per Lui e Lui pregherà per
noi!”. E
finì per quella notte così; appena l`alba, dovevo partire e gli dissi:
“Non aprire
niente, sennò non posso stare tranquillo, devo andare dove Ho gli
impegni; al
ritorno si farà qualcosa; anzi avvisa il Becchino e digli che questa
sera lo
aspetto a casa, dove devo parlargli di premura”.
In primo luogo andai in Municipio
e pregai gli impiegati di firmarmi un foglio ove si dichiarava che il
Figlio lo
avevo riportato io, ed invece questi mi fecero un sorriso: “Ah!..... tu
hai
riportato il Figlio…… ma che hai in materia?....” “ O materia o no, ci
rivedremo
quando mi manderete a chiamare”; e finì così.
Alla sera ritornai a casa, ove
avevo di già provveduto a tutto il necessario per accomodare i resti
del Figlio.
Entrai a casa e trovai il
Becchino e mi disse: “ Cosa bai fatto?.....
davvero bai riportato il Figlio?.....” “ Si!.....vieni a vedere;
hra mi
devi aiutare a portarlo nella Chiesa di S. Giuseppe; li si farà quello
che
dovrò fare”, e mi aiutò. Per fare mezzo chilometro di strada il
Becchino si
riposò parecchie volte ed arrivati nella Chiesa mi disse: “Ma come hai
fatto……
che pesa così…… a fare tutto il tragitto a piedi?.....”. “Lo vedi
tu?..... qui
la strada è breve e buona; ma io dalla stazione a qui; e lassù per
parecchi
chilometri tra la neve. il ghiaccio e il vento?,,,,,”. “ Hai avuto un
gran fegato,
io non sarei stato capace!.....” “
Ebbene per l'amore di un Figlio si : deve fare tutto!”.
Aggiustato per bene, fatto il
sepolcro all'indomani la gente passava e domandava: «Ma chi è
morto?..... non
ha sonato, ma qui c'è una cassa, mala!.....”. E allora da un’altra
persona si
venne a sapere. “Sai?..... Domenico ha riportato il Figlio; è qui! è
Lui.... ma
come ha fatto? ma come ha fatto!..... il Figlio è qui!.....”.
Il Becchino aveva sparso la voce
e anche in Municipio disse: “Sapete? Menco ha riportato il Figlio ieri
sera;
l'ho aiutato io, è nella Chiesa di S. Giuseppe”.
Lo tenni per una settimana
esposto nella Chiesa; chi passava entrava, si inginocchiava e pregava!
Io e la mia moglie, le figlie,
tutti i giorni stavamo vicino alla sua bara, anche alla notte. Specie
la
Vigilia del S. Natale la gente invece di andare alla Messa del Bambino,
entrava
e pregava. Il Sabato dopo il S. Natale, sempre di notte, mi feci
aiutare e lo
trasportai nella Chiesa più grande di S. Agostino, ove lo vegliai fino
alle
quattro del mattino, ossia la Domenica 27 dicembre.
Lì si fecero i funerali. La gente
affollò la Chiesa. La bara era coperta da fiori, bandiere, luci e
candele.
Finalmente la Domenica sera del
27 dicembre 1947, alle ore sedici, ci fu l’accompagno della Salma alla
dimora
del Cimitero.
Tutto il paese era presente all’accompagno
e nell'arrivo al Cimitero la Banda Sigillana intonò l'inno di Mameli.
Nella Chiesa fece il discorso Monsignor
BartolettiI Domenico tuttora Parroco di Sigillo. Non vi era una persona
che non
piangeva nel sentire le parole del Reverendo, anche le pietre sembrava
che
piangessero!...
Ora riposa nella pace eterna nella
Cappella della famiglia Bartoletti Michelina, la quale si offerse a
dare il posto
per il detto Caduto. Anzi ottenni la luce perpetua dal Sindaco di
quell'epoca
per ricompensa del sacrificio del dovere del soldato caduto e del Padre
nell`averlo riportato
E' questa la ricompensa del
sacrificio compiuto! . . .
Si ordinava un lungo corteo di gente, che percorreva
le vie principali del paese. Tutti dovevano avere una candela in mano,
come per
un defunto.
Anticamente, tra le Rocchette e gli Stragini, sul poggio prospiciente la Pennacchia, c'era un esile Croce, chiamata la Crocetta di Nasone, in ricordo di un pastorello di quella famiglia, che, sorpreso da un violento
temporale, fu folgorato da un fulmine.
Mani pietose vi eressero quella croce a ricordo del luttuoso avvenimento.
Con l'andar degli anni, le intemperie e l'incuria degli uomini distrussero quel sacro cimelio.
Un giorno, Checco di Sem, Bartolo di Montagna e Raoul della Bice, in grande segretezza, costruirono una piccola croce, alta un metro e mezzo, verniciata di rosso, con incisa una data: 6.V.1922.
Seguiti da un codazzo di monelli, una sera, la issarono sulla cima delle Rocchette, il poggio che sovrasta Sigillo, a mò di sentinella, che dalla Sportella domina la Valle del Bottino verso il Buzzagone.
Il giorno successivo, domenica mattina, l'ultima processione delle Rogazioni, tra un gioioso suono di campane e il canto delle Litanie dei Santi, partì da S. Andrea e per la Pennaccbìa arrivò ai piedi delle Roccbette.
Grande fu lo stupore dei fedeli, quando videro quella esile croce, che con le braccia aperte sembrava benedire le preci che i fedeli elevavano a Dio: “A fulgure et tempestate libera nos Domine”.
Da quel giorno quella croce divenne un simbolo per Sigillo, e fu meta di passeggiate per noi ragazzi, che, dopo esserci inginocchiati alla sua presenza, consumavamo la merendella, che la mamma ci aveva preparato, ascoltando la campanella delle Monache che annunziava l'Angelus.
A distanza di anni - eravamo vicini agli anni trenta - i giovani di Azione Cattolica, capeggiati dal loro presidente Geremia Laconi, decisero di sostituire la vecchia croce con una più grande, più maestosa e più bella.
Severinetto e Menco della Renzona vi lavorarono alacremente per giorni.
Quando fu ultimata, 60 giovani del Circolo Don Antonio Brunozzi partirono dall'Oratorio, con in testa la bandiera tricolore e si avviarono sulle Rocchette. Tutta Sigillo, ai piedi del colle, assisteva devotamente, mentre per l'occasione tra il coro delle campane si univa anche quella del Comune.
Era un pomeriggio nuvoloso. Il cielo minacciava pioggia e un travone copriva i monti da Fonturce a Nofegge.
Quando la Croce fu innalzata, a mò di prodigio, uno squarcio di sole illuminò il colle delle Roccbette. La folla, stupita, mormorò al miracolo; don Enrico Colini intonava il Te Deum.
Finita la cerimonia, mentre la gente si avviava in paese, il Maresciallo del luogo fermò Geremia e Don Enrico, denunciandoli per occupazione abusiva di suolo pubblico e adunanza non autorizzata.
Si sollevò un mezzo finimondo. La folla tumultuò. Poi il buon senso prevalse, e il Pretore di Gualdo, al quale erano stati deferiti i due protagonisti, archiviò il caso, tra il sollievo generale.
GAMBERACCIO
Su Rivista Magica “mensile di magia, mistero e fantasia” dello scorso anno, fra le località italiane misteriose e strane, figura pure Sigillo.
Non sarà che tale fama le deriva dal personaggio, veramente esistito, le cui strabiliami vicende sono descritte in questa narrazione?
Si chiamava Luigi, ma da tutti era conosciuto con il soprannome di Gamberaccio.
Si era nella metà dell’ottocento, tempi in cui le superstizioni dilagavano, non solo dalle nostre parti, ma in tutta Europa.
Le streghe, il malocchio, le fatture erano all’ordine del giorno. Ogni sciagura, malattia o disavventura, veniva attribuita a fattori magici, oscuri, misteriosi, che solo un esorcista era in grado ali guarire e di combattere il diavolo, che, a detta di tutti, tramite le streghe, torturava la povera gente.
E allora si ricorreva a Gamberaccio, che con le sue arti magiche combatteva e debellava i maligni sortilegi.
Per questo Gamberaccio si era conquistato una fama che varcava i confini della Regione. Di fronte a lui Sghigo di Costacciaro era un inezia, anche se godeva fama di fattucchiere; era come uno studente innanzi al professore universitario.
Gamberaccio, la cui fama varcava ogni limite e il suo nome veniva pronunciato da tutti con reverente rispetto, chi era?
Era un autodidatta. A quei tempi che, per miseria ed ignoranza, l’analfabetismo dilagava nei paesi, lui studiava (naturalmente a modo suo) su libri e storie romanzate dell'epoca. Conosceva a memoria “L’Orlando Furioso” e “La Gerusalemme Liberata”, declamava i versi di Pia dei
Tolomei e di Genoveffa, studiava e commentava la “Divina Commedia”, annotando le sue interpretazioni in un quaderno assieme alle sue formule magiche, che venne poi chiamato dalle genti il “Libraccio di Gamberaccio”, libro che misteriosamente spari alla sua morte.
Ancora oggi i vecchi Sigillani ricordano le sue gesta e, poco tempo fa, Armandone, in piazza, diceva all'estensore di queste note — Pensa se si ritrovasse quel libro! — e Gigetto, tra un’affettata di salame ed altro “Certo che, se oggi ci fosse Gamberaccio, le cose delle nostre parti andrebbero meglio”.
Gamberaccio, dunque, si dedicava alle scienze occulte per combattere il maligno a fin di bene. Profondamente cattolico, cercava di aiutare la povera gente che a lui ricorreva, per guarirla dagli affanni e dai dolori, che indicava nel demonio la causa delle loro sofferenze.
Si dice che la notte di S. Giovanni, a mezzanotte in punto, si recasse sulla “Croce dei Fossi”, ove la fantasia popolare affermava che in quella località le streghe si davano convegno, munito di un bastone di legno stregone e di un’inforchetta di fico legata al collo, che lo rendeva immune dai sortilegi maligni, per poter conoscere e quindi neutralizzare se, tra quelle sciagurate, vi fosse qualche strega delle nostre parti.
In quella notte, libri e testi dell’epoca, e ancora di oggi, affermano che sul Groben, monte della Boemia perennemente coperto di nebbia, avveniva il famoso sabba infernale, ove streghe convenute da tutta l’Europa, danzavano tra rauche strida il girotondo diabolico, in concomitanza dell’altro sabba che nella stessa notte, avveniva sotto il noce di Benevento, dal quale una rinomata fabbrica di liquori vi denominò un famoso “elisir” a tutt’oggi venduto e conosciuto “ La strega di Benevento”.
Si dice ancora che alcune donne, che a sera, si radunavano a sganafoiare il granturco, chiesero l’aiuto di Gamberaccio, perché l’indomani tutti i loro pettegolezzi venivano puntualmente riferiti agli interessati, provocando liti e rancori.
Gamberaccio si recò da loro, e, tra una sganafoiata e l’altra, osservò un grosso gatto nero,che si scaldava accanto al fuoco. Saputo che quel gatto non era di nessuno, improvvisamente, prese un palettino, menò un grosso fendente sul groppone dell’animale, il quale sbuffando e miagolando, fuggì per le scale. Gamberaccio allora rassicurò le comari, che ormai nulla di più di strano si sarebbe verificato. L’indomani mattina, il medico venne chiamato a casa della Felicetta, una povera donna alcolizzata e da tutti additata in odore di stregoneria, perché nella notte, caduta dal letto, si era rotta una spalla……
Fra tante dicerie si afferma che una donna, il cui marito emigrato in America, da un paio d’anni non dava più sue notizie, si rivolgesse a Gamberaccio allo scopo di poter avere qualche informazione. Egli si addormentò ed al risveglio, raccontò che nel sonno gli erano apparsi tre cavalli bianchi: “ Io corro come il vento” disse uno “Io corro come la luce” disse il secondo “Io corro come il pensiero” disse il terzo. In groppa a quest’ultimo, Gamberaccio si recò a Scranton in Pensilvania e, nello store di Pacino di Polpette, trovò il marito di quella Donna che giocava a carte in piena salute.
Circostanza confermata dall’interessato al ritorno in Sigillo, anche perché disse, che era l’unica volta che si era recato a Scranton.
Alla luce di questi altri fatt., oggi si deve dedurre, che Gamberaccio, doveva essere un forte medium, munito di eccezionale sensibilità. Poteri riconosciuti nei nostri giorni, al convegno di Biella da eminenti studiosi di fama internazionale e, suffragati da ben quattro sacerdoti regolarmente autorizzati dalla Curia Vescovile locale ( come riportato dalla stampa di Torino) sul reportage del “Congresso di magia d esorcismo” avvenuto il 10 Giugno dello scorso anno.
Si racconta ancora, che cosa non si racconta di lui? Che una certa Maria Antonia, in partenza per l’America ove si recava a raggiungere i figli ivi emigrati, si recò tra gli altri, a salutare Gamberaccio. In quei tempi il viaggio nel nuovo continente era un’avventura di diverse settimane e Maria Antonia per abbreviare il viaggio, si sarebbe imbarcata a Le Havre. Nel salutarla, lui le disse che avrebbe pregato il Signore per lei. Alcuni giorni dopo, Gamberaccio si recò dal Pievano, per fare applicare un messa per l’anima benedetta di Maria Antonia. Il Parroco si rifiutò.
Non poteva applicare un a messa per un’anima ancora in vita, nonostante le di lui insistenze. L’indomani, i giornali annunciarono a grandi titoli il naufragio nell’oceano del “Borgogna”, salpato da Le Havre carico di emigranti, tutti periti in mare.
Su quella nave era imbarcata Maria Antonia.
Leggende dei tempi andati, tramandate da generazione in generazione, raccontate nelle notti invernali dai nostri nonni, seduti accanto al fuoco nelle veglie, mentre fuori bufa e i monti coperti di neve ululano sotto la sferza della tramontana.
FESTA DI S.
ANNA A SIGILLO - ANNO 1925
Un enorme concorso di popolo ha contribuito alla magnifica riuscita dei
festeggiamenti, il cui programma si è svolto senza incidenti di sorta.
Preceduta da solenni funzioni religiose celebrate da S. E. mons. Cola
Vescovo
di Nocera e Gualdo, che nella mattina del 25 ha somministrato il
Sacramento
della Cresima a oltre 200 bambini della Parrocchia, ha avuto luogo la
Processione Votiva sino all’antico oratorio di S. Anna fuori le mura.
Il
corteo, bene organizzato, ha attraversato le vie principali del Paese,
i cui
edifici sono stati artisticamente illuminati per la circostanza.
Un gruppo di cittadini, guidati dal più schietto e giovanile
entusiasmo, allo scopo di rendere più attraente la serata, ha sparato
mortaletti,
ha acceso razzi lumino con grande gioia del popolo uscito per le vie a
godersi
lo spettacolo eccezionale.
Circa le ore 8 ant. Del 26 corr. È poi giunta la Banda Musicale di
Umbertide, egregiamente diretta dal mastro Alessandro Franchi.
A riceverla fuori porta bolognese v’erano il Sindaco comm. Giuseppe
Agostinelli, il cav. uff. Ubaldo Fantozzi, Presidente
del Comitato dei festeggiamenti, gli assessori Tomassoni Severino,
Caserta
Francesco, Cartocci Geremia, Costami Pietro, i consiglieri Bartoletti
cav.
Francesco; dott. Giuseppe Miliani, dott. Serafino Damiani, R. Giudice
Conciliatore, l’avv. Luigi Bartoletti segretario comunale, quest’ultimi
del
Comitato dei Festeggiamenti, il cav. Sante Fantozzi e moltissimi altri
cittadini lieti di dare il benvenuto agli ospiti graditi.
Contemporaneamente
alla Banda giungevano da Umbertide il Sindaco cav. Gualtiero
Guardabassi, il
sig. Gaetano Guardabassi presidente della Banda Musicale, il sig.
Astorre
Ramaccioni, il cav. Micheletti Alessandro, il cav. Raniero Moroni
accolti tutti
festosamente.
Non appena la Banda
Musicale ha raggiunto suonando la Piazza Municipale
il sindaco cav. Guardabassi ed il presidente della Banda sig. Gaetano
Guardabassi sono saliti insieme ad altri signori sulla loggia del
Civico
Palazzo per deporre una ricca corona di fiori freschi in memoria dei
Caduti di
Guerra innanzi la Targa Monumentale che li ricorda, gentile omaggio
patriottico
della Banda, che ha poi intonato la Canzone del Piave salutando gli
Eroi.
Dalla popolazione
accorsa in Piazza è sorto un frenetico applauso di
approvazione, mentre il sindaco comm. Agostinelli, vivamente commosso
per la
inaspettata cerimonia, ha pronunciato brevi parole di saluto agli
ospiti,
ringraziandoli a nome della popolazione per il loro atto squisitamente
gentile.
Dopo di ciò è stato
offerto il vermouth d’onore nella Sala Consigliare
in omaggio agli ospiti ed alle Autorità dal Comitato dei
Festeggiamenti. Alle
ore 10 ant. proveniente da Gualdo Tadino, dove si trovava ospite della
nobile
famiglia Calai-Mavarelli, è giunto S. E., mons. Curi nuovo arcivescovo
di Bari.
Erano ad attenderlo
tutte le Autorità Cittadine, le Rappresentanze
delle Società e dei Sodalizi locali, le Compagnie religiose, il ven.
Seminario
di Nocera Umbra, una folla enorme di popolo.
Dopo le presentazioni
di rito il comm. Agostinelli a nome della Popolazione
di Sigillo ha rivolto un indirizzo di omaggio all’eminente ospite, il
quale,
con parole gentili ha ringraziato le Autorità presenti invocando da Dio
copiose
benedizioni sopra il popolo sigillano tanto orgoglioso per le sue
nobili
tradizioni religiose e tanto sensibile ad ogni manifestazione sociale.
Quindi S. E.
L’Arcivescovo, seguito da tutti, si è recato nella Chiesa
di S. Andrea per celebrarvi la Messa Pontificale.
Accolto con
venerazione dai fedeli stipati nel vasto tempio, ha
iniziato la sacra funzione mentre la Polifonica locale, composta di
oltre 30
cantori ha eseguito la messa a tre voci dispari del M. Francesco Tavoni
sotto
la direzione magistrale del concittadino can. don Riccardo Fantozzi,
figlio del
nostro amato ing. Nicola attualmente parroco in quel di Cancelli
(Fabriano). Il
M. prof. Franchi volle gentilmente prestarsi per la perfetta esecuzione
della
musica sacra accompagnando il canto all’armonium ed eseguendo poi
all’organo
delle sue belle composizioni liturgiche.
Molto bene hanno
suonato i componenti della locale Scuola di stromenti
ad arco coadiuvati dal maestro Bedini di Gubbio.
S. E. l’Arcivescovo,
dopo il Vangelo, ha pronunciato un discorso di
circostanza, che ha suscitato l’unanime approvazione degli astanti, che
lo
hanno seguito sempre con religiosa attenzione.
Nel pomeriggio, in
Piazza Umberto I, letteralmente gremita di gente
venuta da ogni parte, la Banda Musicale di Umbertide ha eseguito il suo
programma. L’ottima preparazione dei musicanti la valente direzione del
prof.
Franchi sono state superiori ad ogni elogio. Applausi fragorosi hanno
salutato
la Banda ad ogni finale.
Le Autorità
Ecclesiastiche sono state ricevute in Municipio con ogni
onore. Sulla loggia del Palazzo si sono lungamente soffermati ad
ascoltare la
musica S. E. mons. Curi, S. E. mons. Cola, mons. Ribacchi, sempre
accompagnati
dal sindaco comm. Agostinelli, dalla Giunta Municipale e da un folto
gruppo di
notabili.
S. E. Mons. Curi ebbe
parole di vivo elogio per il Presidente del
Comitato dei festeggiamenti cav. uff. Ubaldo Fantozzi per la bella
riuscita
della festa della Santa Patrona. Devesi infatti al cav. uff. Fantozzi
tale
felice esito anche per il generoso contributo finanziario dato al
Comitato. La
festa è stata poi chiusa con luminarie e con un magnifico spettacolo
cinematografico all’aperto, durante il quale la brava Filarmonica di
Cantiano
eseguì delle scelte melodie.
Non si deve
dimenticare la bella riuscita del Tiro al Piccione
svoltosi, in voc. Colle per iniziativa della locale Società dei
Cacciatori dato
l’intervento di numerosissimi e valenti tiratori forestieri, che tutti
ebbero
accoglienze cordialissime ed ospitali.
Tale perfetta riuscita
va ad onore del geom. Agostino Agostinelli Presidente
della locale Società dei Cacciatori che seppe organizzare il
divertimento con
tanta perizia ed originalità. Vinse il primo premio il signor Luigi
Boccolini
di Bevagna (14 su 14).
Si deve pure ricordare
la Fiera di Beneficenza organizzata dal sac.
Enrico Colini pro Scuola Lavori Femminili, per i magnifici e ricchi
doni pervenuti
da ogni parte.
Degna
di encomio è pure la locale Società Sportiva che seppe tanto bene
organizzare
la corsa ciclistica nel pomeriggio del 25 corr. Vincitore del percorso
Sigillo-Fossato Gubbio Scheggia Sigillo (km. 65) fu il
concittadino Scattoloni Giuseppe.
Una parola di
particolare elogio deve tributarsi alla Banda di Umbertide non soltanto
per la
magnifica esecuzione del suo programma ma anche per la perfetta
organizzazione
della Banda che diede esempio di ordine, di disciplina, che seppe
cattivarsi la
simpatia di tutto il popolo nel cui animo vivrà il ricordo degli ospiti
gentili
e bravi.
“Dal giornale
“L’Assalto” giovedì 30 – venerdì 31 Luglio 1925
Anno scorso, nell'Ospedale di Gualdo, fui operato dalle mani esperte del prof. Raoul Braccini.
Confesso di non aver simpatia. per questo agrume; anzi di averlo evitato sempre accuratamente nella vita.
Ma, riarso di sete com’ero, e vedendomelo li dinanzi durante le lunghe giornate e le notti interminabili, fui spinto a prenderlo e ad assaggiarne il succo, che trovai addirittura buono.
Quello però che più mi colpì, fu il profumo della sua essenza sulla buccia gialla, ricca di terpeni: un profumo gentile, penetrante, soave, straordinariamente gradito.
Da quel giorno, in ospedale, desiderai avere vicino a me quel frutto delizioso.
Ai bei tempi, quando in S; Andrea si suonava a festa senza elettrificazione di campane, uno dei doppiettisti più famosi era Alfredo Bianconi.
Un giorno, nella festa di Cristo Re del 1954, salì alla cella campanaria e talmente si sbizzarrì nei vari temi di accompagno al campanone, da metterci tutta l'anima e la fantasia di concertista.
E suonò entusiasticamente.
Noi l’ascoltavamo dalla piazzetta delle Monache e sentivamo con stupore i mille motivi che nell'estro musicale e in perfetta scelta di tempo e di ritmo andava componendo.
Quando il suono fu placato e le onde sonore si dileguarono, egli stesso, felice della sua produzione di doppiettista, si affacciò dalla cella campanaria e gridò gioiosamente: “Don Domé, Don Domé, ma noi le famo parlà 'ste campane !”.
Questo grido di giubilo fu il più bel commento della sua anima,
inebriata di suoni.
QUANDO
A COSTACCIARO SI COSTRUIVANO LE PALLE DI CANNONE
Ma in realtà, fra i Sigillani, non c'erano stati né
morti, né feriti; si trattava di alcuni frequentatori di una bettola
che, fra
un bicchiere e un altro, giocavano allegramente alla morra!
Ogni concorrente viene calorosamente applaudito, dall’asso
Taruffi al nostro Baravelli, dalle eleganti Aprilia alle potenti Alfa, come pure
quella di Vittorio Mussolini: tutti destano ammirazione e vengono fatti segno con applausi calorosi.
Dopo questa annotazione, il cronista approfitta
dell’ospitalità concessa dall’amico carissimo dott. Giorgio Damiani e al volante
della sua veloce Fiat facciamo insieme al dott. Simone Bartoletti una ricognizione
sul percorso Arriviamo a
Villa dove facciamo passare due macchine impegnate in un’ emozionante duello,
sono le due Aprilia di Tonini e di Colombo; nella curva a gomito Colombo supera
Tonini e in breve si allontanano velocemente. A Scheggia ingaggiano un duello
”spolverando” classicamente la macchina del nostro giornale con a bordo vari
colleghi della Provincia. Da per tutto vi é folla e ordine perfetto, mai gara sportiva ha sollevato nella nostra gente tanto
entusiasmo e contentezza. Le autorità locali, benché per la prima volta, hanno
saputo assolvere ottimamente il compito loro affidato.
Narra una leggenda antica che le spoglie monali del Re dei
Goti Totila ( Totila Baduilla ) fossero sepolte nel ponte romano chiamato
"Ponte Spiano "di Sigillo.
La narrazione tradizionale parla di una sepoltura ”egale”, ossia,
oltre il corpo del Re, il popolo dei Goti, vi avrebbe sepolto: l'armatura in
oro - la spada - il pugnale - la lancia ed il cavallo (si crede che sia stato
ucciso e sepolto con il suo proprietario), oltre ad un copricapo tempestato di “gemme”
preziose.
La storia vera invece cosi racconta: “Totila dimorava in questi
tempi in Roma, aspettando che da Verona venissero a congiungersi seco le squadre
comandate da Teja. Venute queste, ancorché fossero restati indietro duemila
cavalli, mosse l'armata sua, e per la Toscana s'inoltrò sino all'Appennino in
un luogo appellato Tadina, alquante miglia lungi dal campo di Narsete postato
ad un luogo chiamato i Sepolcri dei Galli.
Quivi si accinsero ambedue le nemiche armate a decidere con
un generale conflitto della sorte d’Italia. Procopio, secondo il costume di
vari storici greci e latini, ci fa intendere le belle parlate che i due generali
avrebbero dovuto fare ai loro soldati per animarli al combattimento.
Ma quando già schierati gli eserciti si credeva inevitabile
il fatto d’armi, Totila si ritirò indietro, per attendere duemila combattenti,
che a momenti doveano arrivare. Arrivati poi questi, si venne alla giornata
campale, che fu formidabile, sanguinosa e piena di morti, ma specialmente dalla
parte dei Goti.
Tacciato fu di inescusabile imprudenza Totila, perché ordinò
ai suoi di non valersi nella zuffa né di saette, ne di spade, ma solamente di
picche e lance. Servendosi all’incontro l'armata di Narsete di tutte la sue
armi, fece tal guasto in quella dei Goti, che finalmente la rovesciò e mise in
fuga. Rimasero estinti sul campo circa seimila Goti, altri si arresero, che
furono poco appresso tagliati dai Greci. Gli altri coll’aiuto delle lor gambe,
o dé cavalli, si studiarono di salvare la vita. Sopraggiunse la notte, e Totila
fuggendo anch’egli cercava di mettersi in salvo.
Ma ossia che dal calore della battaglia fosse trafitto da una
saetta, mentre al pari dé soldati valorosamente combatteva, giunto ch’egli fu
ad un luogo chiamato Capra, fu bensì curata la sua ferita, ma da li a poco di
quella mori, e al corpo suo tumultuariamente data fu sepoltura. Molto spesso la
storia é fatta di leggende, le quali però hanno solide fondamenta.
Molti, ma molti anni fa però, nei pressi del Ponte Spiano,
avvenivano delle insolite cose. Molto spesso si sentivano strani rumori, come di
gente che scavava di notte. Il mattino seguente si vedevano sul terreno
adiacente il ponte, delle buche, molto larghe e profonde, tanto che del caso si
occuparono anche i Carabinieri. Poi tutto ritornò alla normalità e la gente
dimenticò, ma, non scordò l’accaduto.
La nostra versione della ”Leggenda” che ci é stata raccontata
da persone anziane, e quindi degne di ogni stima e fiducia, cosi racconta: Intorno
al Ponte Spiano e precisamente sul lato destro (forse 0ltre la strada delle
Cortine), fu ritrovata una “statua d’oro” alta circa 30 cm, raffigurante un Re con le armi e con sotto una scritta “Rex TotiIa”.
Questo rinvenimento venne scoperto da una persona, la quale
dopo tale ritrovamento edificò un palazzo (forse uno dei più grandi di
Sigillo).
La statua fu poi venduta ad un mercante di Roma, il quale successivamente
la rivendette ad un trafficante “Cinese”.
Tra leggenda e realtà quindi la nostra statua d ’oro del
"Rex Totila", attualmente si troverebbe in Cina.
Raccontando le gesta del glorioso Re dei Goti, la storia
vera termina cosi: “in esso anno (552) dico, nel mese d’agosto arrivarono a
Costantinopoli i corrieri trionfali, portando la nuova della gran Vittoria
ottenuta da Narsete colla morte di Totila, le cui vesti insanguinate e la sua
berretta carica di gemme fu presentata a Giustinianio Augusto”.
Viene cosi chiamato perché si dice che proprio in questo
posto vi nasce “La Cicuta”, quella pianta erbacea (Cicuta Virosa) velenosa.
Assomiglia un pò al prezzemolo col quale, come altre specie affini, é stata
talvolta confusa, dando luogo ad avvelenamenti anche gravi; se ne distingue
comunque per le sue foglie a "Lacinie" strette, di colore verde più scuro
e per i fiori bianchi anziché giallicci; inoltre, specialmente se stropicciata,
emana uno sgradevole odore nauseante.
Questo luogo, però, é anche ricordato per un fatto avvenuto
tanti anni fa.
Si racconta che alcuni ragazzi, mentre erano intenti a pascolare
il gregge, colti da curiosità e da quell’alone di mistero che affascina le
menti dei fanciulli, si recarono a visitare l'orto.
Impauriti, ma ficcanaso, controllarono ogni parte, tanto che,
in una insenatura della roccia, scoprirono una sacca contenente “monete d’oro”.
Per alcuni giorni custodirono il loro segreto ma, come
sempre avviene, quando il peso di un segreto é troppo grande da portare, si
confidarono con i loro genitori e consegnarono le monete.
Sogni di ricchezza, progetti, illusioni, fantasticherie
passarono per le menti di quei genitori i quali, senza pensarci tanto, si
fidarono di un uomo senza scrupoli, del posto, che con lusinghe infondate si
fece consegnare le monete.
Queste persone persero non solo le monete ma anche la sacca
che le conteneva.
E’ una tradizione Secolare Sigillana, segnalata anche dalla
rivista del Touring Club Italiano. Il 9 dicembre d'ogni anno, i giovani passano
per le vie del paese, con un carro a sterzo, trainato a mano. mediante una
lunga fune, munita di bastoni incrociati.
Passano gridando “Viva Maria”, chiedendo legne e fascine.
Poi le accatastano, e sul punto più elevato mettono un cartello, su cui è
scritto “Viva Maria”. Alle 20 si accende il focaraccio. Tutto il popolo
interviene a questa festa paesana, e per buona parte della notte si scalda al
fuoco che divampa allegramente.
Sulle ore 2 del mattino suonano a festa le campane in
ricordo del passaggio (la Venuta) della casetta di Nazaret, portata da mani
angeliche da Scutari a Loreto
Nelle case, a quello scampanio, si recitano le Litanie della
Madonna.
Il fuoco continua ad ardere fino alle tarde ore del mattino.
C’e stata una circostanza in cui il Focaraccio mieté una
piccola vittima: Pietro Notari, di anni 5.
Era la sera del 9 novembre 1930. Freddo pungente. Sulla
piazza comunale, allora in terra battuta, s’era preparato il focaraccio. Alle 8
si accese, tra grida di gioia, l’enorme catasta, con al centro un alto pioppo,
strappato lungo l’argine della Doria. Tutta la gente era in piazza. Anche il
piccolo Pietro, eludendo la sorveglianza dei suoi cari, vi si recò, insieme
agli amichetti. La mamma era in casa con in braccio il figlio Luigi, di tre
mesi.
Mai avrebbe pensato al pericolo che incombeva su Pietro.
E gli era la a scaldarsi, a godere del crepitio delle
fascine, a illuminarsi alla luce delle alte fiamme e delle lute incandescenti.
All’irnprovviso l’alto pioppo, perduti gli appoggi delle fascine
bruciate, cadde dalla sommità e andò ad abbattersi sulla testa dell’ignaro piccolino.
Colpito a morte, stramazzò a terra, privo di vita.
L’irnpressione fu enorme. La gente si allontanò, le mamme se
ne andarono in fretta, portando a casa i figli. La piazza rimase come deserta.
Alcuni volonterosi raccolsero il piccolo e lo portarono dai genitori, che piansero
tutte le lacrime dei loro occhi.
ll giorno dope si fece il funerale e il trasporto al cimitero.
Intervennero tutti i bambini. Pietro giaceva vestito di bianco, nella bara
bianca, scoperta, oggetto di amore, di fiori, di baci, di lacrime.
Fu la mesta apoteosi di lui su questa terra.
Nel registro dei morti della parrocchia, a firma del pievano
d. Francesco Costanzi, leggiarno: “Die 9 hora 20.30 mensis decembris anni 1930 Petrus Notari vivi Guidi et Marzolini Quintae, occsus fuit a
magno trunco in pubblica platea, occasione foci in honorem traslationis B. M.,
aetatis suae anno circiret quinto”.
Il Focaraccio, in seguito a quel doloroso avvenimento, fu
sospeso per alcuni anni. Ma dopo la swconda guerra mondiale riprese il suo
corso.
Oggi al posto di una
catasta a forma piramidale, si prepara un focaraccio basso, con base
allargata, perché non succedano più simili disgrazie.
IL “GRIFO RAMPANTE”
(Leggenda sullo
stemma di Sigillo)
Il “Grifo Bianco” in campo Rosso...!
Il “Grifo Rosso” in
campo Bianco...!
Lo Stemma della Bandiera e Gonfalone Comunale di Sigillo è
proprio quello del “Grifo Bianco” in campo Rosso.
Mentre quello del Gonfalone e Bandiera della Città di
Perugia é il Grifo Rosso» in campo Bianco.
Ebbene, tenuto conto che, molto lodevolmente, c’é ancora,
qualche diligente storico Sigillano, che ha preso l’iniziativa di ricercare
negli archivi polverosi delle varie città vicinorie, come Gubbio, Gualdo e
Perugia, le origini Storiche di Sigillo, si ritiene utile, riportare qui di
seguito questa Leggenda, che non si sa, quando e da chi sia stata raccontata.
Ma questo particolare
non ha imponanza.
Un tal giorno, che si perde, nella notte dei tempi, due
cacciatori, s'incontrarono a Sigillo per andare a fare una battuta di caccia
nelle foreste che allora circondavano il territorio di Sigillo che, si gloriava
di essere uno dei Feudi più avanzati e più valorosi della città di Perugia.
Questi due coraggiosi Cacciatori. certamente amici, erano;
uno Perugino e l'altro un Sigillano.
Ebbene, gira che ti rigira, s’imbatterono in un bel “Grifo
Bianco” si appostarono, lo presero di mira, lo colpirono e lo uccisero.
Davvero una bella preda!
Lo legarono appendendolo su di un capace bastone, se lo
caricarono ognuno sulla propria spalla cosi, uno avanti e I‘altro dietro, a
passo passo, fecero ritorno a Sigillo.
E proprio qui, da buoni amici, avvenne la caratteristica
spartizione.
II Perugino, forse un grande ed autorevole Signore, si prese
la Carne del Grifo e al Sigillano lasciò la Pelle...I
La carne del Grifo era certamente Rossa e la sua pelle era
veramente Bianca!
A ricordo di quella bella e fortunata giornata, i due
cacciatori, forse Capi delle due Comunità, pensarono di decorare la loro
Bandiera o Gonfalone con quel bel Grifo rampante.
E’ una suggestiva Leggenda, ma spesse volte anche le Leggende,
hanno un fondo di commovente verità...!
(Novella di Geremia Luconi)
L’alba non prometteva niente di buono.
Il sole aveva appena tinto di rosa pallido le nubi spesse e scure che si addensavano sopra Nofegge lambendo di sfuggita la banderuola del Palazzo Municipale e la crocetta del campanile di S. Agostino. Montecucco portava il cappello: un cappellaccio nero come la pece che gli arrivava più giù del Faggeto Tondo.
Anche dal Pian del Monte al Prato dei Signori era tutto un paro di nebbia che, scesa sotto la Rocchette e i cocuzzoli della Mucchia, copriva la neve caduta il giorno avanti. A S. Andrea era suonato il giorno con rintocchi smorzati dalla brina gelatasi sugli orli delle campane.
Fatto il giro del paese con la Pirusella in testa al branco, tutta ingufata in un pesante cappotto da uomo e con certi scarponi chiodati che destavano echi duri sul selciato, l’Annetta stava conducendo le capre al pascolo. “Non t’allontanare troppo”, l’aveva avvertita Cecchetello consegnandole le proprie bestiole, che prima di uscire dal tepore della stalla annusavano titubanti l’aria gelida scotendo i mantelli arruffati. “Cisono i lupi in giro e proprio ieri, Semmè ci si è incontrato sopra Fonturci”.
Le capre s’erano fermate a brucare sopra il Sodo, nelle costarelle davanti alla Macchia del Peloso, in un pratello fra la boscaglia e il Balzone che, imponente e massiccio come un antico castello, strapiomba sulla strada dei Trocchi. L’Annetta s’era seduta in una pietra orlata di carpia, vicina ad un cespuglio di ginepro, sbocconcellado la torta di granturco, imbottita di erba col battuto. Camminando s’era riscaldata; quando i piedi sono caldi, tutto il corpo sta bene; messo a posto lo stomaco, guardava con affettuosità le caprette che mangiavano tranquille.
Stavano tutte insieme come ammeriggiate, forse per ripararsi l’una con l’altra; di tanto in tanto sollevavano i musetti dall’erba aspirando l’aria purissima e fumando per le narici.
Solo la Pirusella se ne stava in disparte, cercando la santoreggia a margine del prato.
Che bella capretta la Pirusella! – tutta bianca, con due pezze nere sui fianchi e fra l’incornatura d’avorio, elegante, agilissima, era l’orgoglio dell’Annetta, che se l’era tirata su come una figlia.
“Ti manca soltanto la parola – soleva ripetere con compiacenza – povera bestiola!”.
L’Annetta la comandava come una persona, se ne serviva da guida per il branco, da compagna per la strada.
Quando le dava qualche crostarella che si toglieva dalla bocca, la Pirusella la guardava con gli occhi di gratitudine, la ringraziava leccandole il viso e accarezzandola con la testina.
Il Sodo, costeggiato da due filari di pioppi stecchiti sussurrava con un fil di voce la sua canzone.
Quando sui monti c’è la neve, i fossi sono quasi all’asciutto. Il Sodo ridotto a un rigagnolo alimentato dai Trocchetti, serpeggiava vicino l’argine della Capanna del Guardiano, quasi per cercare un rifugio negli sgrottamenti delle piene autunnali, mentre il resto del suo ampio letto ghiaioso era tutto senz’acqua. Una sparata di sole illuminò per un momento il poggio Spicchio e sulla ventata che aveva dato un brivido violento alla macchia, le giunse agli orecchi il suono di un corno. L’Annetta lo riconobbe subito.
Era Giomba, il pecoraro, che suonava tutto il giorno dalle Falaschiare per allontanare i lupi!
Ad un tratto le capre le si cominciarono a serrare attorno con belati di sgomento : l’Annetta si alzò per accarezzare le più vicine e dare una voce alla Pirusella. Il branco aveva ondeggiamenti paurosi: “Povera me – mormorò l’Annetta – si direbbe che le capre sentano il lupo: Pirusella! Pirusella”. Non aveva finito di chiamare la capretta che, con rumore di rami schiantati fra la macchia, un grosso lupaccio era sbucato nel prato avventandosi sulla povera bestiola!
“S. Antonio aiutatela” implorò con la morte nel cuore l’Annetta, senza avere il coraggio di muovere un passo! La Pirusella, schivato l’assalto del lupo che aveva tentato di azzannarla per il collo, si era data alla fuga verso il Balzone. La Pirusella pareva avesse le ali: traversato come una setta un sodello, si era lanciata a pazza corsa sul crinale del Balzone con i lupo sempre alle calcagna. “Pirusella!” gridò terrorizzata l’Annetta, “Pirusella mia!” con negli occhi la visione del salto che stava per fare la sua bestiola e seguendola con il cuore che le si spezzava nel petto. La capretta era sull’orlo del precipizio: ancora un passo e sarebbe scomparsa di sotto. Come trattenuta da una forza invisibile, però, puntò i piedi e si fermò di botto. Per un attimo la sua figura si profilò sopra il Balzone nello sfondo grigio della nebbia che copriva le coste di fronte. L’Annetta si mise le mani sulla testa. Il lupo… non c’era più. Trasportato dall’impeto della corsa era caduto giù a sfracellarsi nella strada.
Da allora il Balzone, che secondo la leggenda sarebbe la continuazione della scogliera delle Lecce, spezzatasi alla morte del Signore, si chiama Balzone del Lupo.
Nelle sere d’inverno, narrano i pastori, vi si sente un rabbioso ululato di morte che il vento porta lontano, sulla romba della tramontana, gelida e sferzante…..